Parto anonimo e diritto del figlio alla ricerca delle proprie origini

Parto anonimo e diritto del figlio alla ricerca delle proprie origini
07 Febbraio 2017: Parto anonimo e diritto del figlio alla ricerca delle proprie origini 07 Febbraio 2017

Cassazione, sezioni Unite Civili, 25/01/2017, n. 1946 ha stabilito che, in tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. Detto interpello dev’essere effettuato con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna. Resta, comunque, fermo che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.  Le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto che siano venuti meno i caratteri dell’ “assolutezza e irreversibilità” della dichiarazione d’anonimato fatta dalla donna al momento del parto per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013 e di quella della CEDU del 25.09.2012 (caso Godelli c. Italia). Con la prima pronuncia la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge n. 184/1983 e ss.mm. nella parte in cui non prevedeva, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicurasse la massima riservatezza, la possibilità per il giudice d’interpellare, su richiesta del figlio, la madre che avesse dichiarato di voler restare anonima ai fini di un’eventuale revoca di detta sua precedente dichiarazione. Con la seconda sentenza la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per la violazione dell’art. 8 CEDU, nel quale doveva ricomprendersi anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano. Entrambe le suddette pronunce avrebbero, quindi, evidenziato la necessità di un bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato, che riposa sull’esigenza di “salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento … tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica e la stessa incolumità di entrambi e creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili” e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale. Ad avviso delle Sezioni Unite, l’irreversibilità della dichiarazione d’anonimato condurrebbe ad una “preferenza incondizionata” per l’interesse della madre, sacrificando “totalmente il diritto del figlio a conoscere le proprie origini”, senza che ciò sia “strettamente necessario per tutelare il diritto all’anonimato della madre”. Il “punto di equilibrio” tra i due interessi si compendierebbe, pertanto, nella “riconosciuta possibilità per il giudice di interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua volontà attuale quando c’è un figlio interessato a conoscere la sua vera origine”. Il monito delle Sezioni Unite è, pertanto, tutto rivolto ai giudici: nell’attesa dell’intervento del legislatore, questi sono, infatti, chiamati ad un importante compito, quello di interpellare riservatamente la madre anonima, in modo da garantire effettiva tutela al diritto fondamentale del figlio alla ricerca delle proprie origini, consentendogli di cercare una risposta a quella domanda, da sempre connaturata all’uomo, “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?[1]”.      [1] Paul Gauguin, Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?, 1897, olio su tela, Museum of Fine Arts, Boston.

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